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07 Gennaio 2012 – Pierluigi Montalbano presenta il suo ultimo libro “ANTICHI POPOLI DEL MEDITERRANEO”
Questa sera alle 17.30, con il patrocinio della libreria Koinè di Porto Torres e dell’Associazione Sviluppo e Rinascita, vi è stata la presentazione dell’ultimo libro di Pierluigi Montalbano
“ANTICHI POPOLI DEL MEDITERRANEO”.
Presso la libreria Koinè, in C.so Vittorio Emanuele 25 il Professore Cagliaritano Pierluigi Montalbano, autore del libro “Antichi Popoli del Mediterraneo“, pubblicato da Capone Editore a Novembre 2011, ci ha esposto nel suo studio un’interessante panoramica delle civiltà che sin dal Neolitico si affacciavano sul mare Mediterraneo.
Il mare, fin dall’alba dei tempi, rappresenta una risorsa vitale per l’umanità. Le più floride civiltà si svilupparono in prossimità dei porti naturali dove si potevano agevolmente riparare dal maltempo le imbarcazioni e laddove le risorse ittiche ampliavano la scelta dei prodotti commestibili e le foci dei grandi fiumi regalavano acqua dolce, terreni fertili e possibilità di trasporto su zattere.
Tra i vari focus su cui si concentra l’opera, uno molto significativo é la scomparsa della civiltà Minoica, senza rivali nelle attività marinare, e che scomparve probabilmente ad opera di una catastrofe naturale.
La parte più interessante del libro, per noi Sardi, si trova verso la fine. Esso infatti si chiude con un approfondimento di una delle più antiche e misteriose civiltà mediterranee, quella Nuragica, con una minuziosa descrizione della sua riscoperta attività marinara, alla luce anche delle ultime scoperte archeologiche.
Ad introdurre l’autore è stato Luigi Ruda, animatore dell’Associazione “Sviluppo e Rinascita”.
La presentazione del libro è stata arricchita dalla proiezione di immagini inedite realizzate al British Museum di Londra e al Museo di Ankara, in Turchia.
Ha concluso la serata un’interessante dibattito con i presenti che hanno posto numerose domande all’autore che ha sempre risposto con un linguaggio semplice e accessibile a tutti.
Pierluigi Montalbano ha fatto della Storia una ragione di vita. È docente di preistoria e protostoria nei corsi regionali per il rilascio del patentino di guida turistica, edi storia in alcuni istituti sardi. È stato relatore in ambito storico-archeologico in numerosi convegni in Italia e all’estero ed è coordinatore di importanti rassegne espositive sul Mediterraneo Arcaico.
Collabora con una equipe internazionale su temi riguardanti la navigazione antica, i relitti sommersi del bronzo e del ferro e i commerci fra oriente e occidente mediterraneo. È specialista nell’ambito della metallurgia del rame e del bronzo, dalla produzione ai processi di lavorazione per ottenere i prodotti finiti.
Dirige il quotidiano on-line di storia e archeologia, organizza conferenze sulla storia della Sardegna e progetta laboratori didattici dedicati all’archeologia. È curatore per il 5° anno consecutivo della rassegna culturale “Viaggio nella Storia”, realizzata in collaborazione con i docenti della Università di Lettere e Filosofia di Cagliari.
È autore di oltre novanta articoli a carattere scientifico, tra i quali quattro libri:
– Le navicelle bronzee nuragiche – 2007 – Dal Neolitico alla civiltà nuragica – 2008 – Sherden, Signori del mare e del metallo – 2009 – Antichi Popoli del Mediterraneo – 2011
Le acque del Golfo dell’Asinara nascondono le vestigia di un’Antica Civiltà?
IPOTESI SULL’ESISTENZA DI CIVILTÀ ANTIDILUVIANE
Secondo l’ipotesi più accreditata l’Homo Sapiens Sapiens, evolutosi in Africa, a partire più o meno da 200 mila anni fa, visse per un lungo periodo con le popolazioni di Homo Sapiens si è diffuso in Europa a partire da oltre 40 mila anni or sono (reperti rinvenuti nella Grotta del Cavallo nella Baia di Uluzzo, nel Comune di Porto Cesareo, in Puglia, risalenti a 44 mila anni fa).
Quindi, circa 40 mila anni fa è giunto in Australia, mentre solo 14 mila anni fa arrivò nel Nuovo Mondo, attraversando la prateria detta Beringia (attuale stretto di Bering).
Secondo questa teoria, solo 10 mila anni fa l’uomo divenne stanziale sviluppando l’agricoltura e dando inizio alla fondazione dei primi centri abitati (Gerico, 8000 A.C.).
Vi sono però numerose critiche a questa ipotesi, che sostengono non solo l’inesattezza di questi dati, ma addirittura la possibilità che l’uomo abbia sviluppato delle civiltà organizzate prima del 9500 a.C.
In effetti potenzialmente l’Homo Sapiens avrebbe potuto, nel corso dei 200 mila anni da quando è apparso sulla Terra, sviluppare varie civiltà agresti o marittime, magari evolutesi su piani differenti all’attuale, più spirituali e meno legate al materialismo.
Nel corso degli ultimi anni alcuni archeologi hanno trovato in America dei resti umani, che mettono in discussione le teorie ufficiali e portano a riconsiderare l’intero passato dell’uomo, non solo per quanto riguarda le Americhe, ma per l’intero pianeta.
L’archeologa brasiliana Niede Guidon (supportata da vari altri studiosi di fama internazionale), ha trovato resti di Homines Sapientes arcaici nel Piauì (nord-est del Brasile a circa 700 chilometri dalla costa atlantica), che risalgono a 12 mila anni fa. Le datazioni con il metodo del carbonio 14 hanno provato però che alcuni focolari sono stati utilizzati nella zona oggetto di studio già 60 millenni fa. Questa prova mette in discussione la teoria ufficiale del popolamento delle Americhe secondo la quale i primi abitanti del Nuovo Mondofurono gli appartenenti alla cultura Clovis (deserto del Nuovo Messico), circa 11 mila anni fa.
Nel Nuovo Mondo sono stati tanti i ritrovamenti che provano una presenza arcaica dell’uomo, per esempio quello di Monte Verde, in Cile, risalente a 33 mila anni fa.
La teoria riconosciuta del popolamento delle Americhe viene così a cadere, e deve essere completata da altre ipotesi, che considerano la colonizzazione del Nuovo Mondo direttamente dall’Africa, ma anche dalla Melanesia e Polinesia.
Tutto ciò pone sotto un’ottica nuova l’intero periodo durante il quale l’Homo Sapiens Sapiens colonizzò la Terra, da 200 mila anni fa fino ad oggi.
Ora, se si considera che, ad esempio, durante la Glaciazione Riss o Rissiana, che fu la terza glaciazione avvenuta in Europa nel Pleistocene, il primo periodo dell’Era Quaternaria, che durò da 200 mila a 130 mila anni fa, quando era al suo massimo, il livello dei mari era molto più basso rispetto all’attuale, ciò verosimilmente permise all’uomo di spostarsi più facilmente da una parte all’altra del pianeta, proprio perché molte terre, ora sommerse, affioravano sulla superficie dei mari. Nello specifico, la Sardegna era collegata attraverso la Corsica anche alla Toscana.
È possibile che alcuni gruppi di umani, appartenenti ad etnie tutt’oggi conosciute, abbiano fondato delle città costiere, che successivamente furono spazzate via dall’innalzamento del livello dei mari?
Molte culture hanno lasciato opere letterarie nelle quali si narra di un diluvio, o di un periodo di sconvolgimenti climatici di portata eccezionale:
• Atrahasis (mito sumero), l’epopea di Gilgamesh (leggende babilonesi);
• ma anche in moltissime tavolette Sumere come dimostrato dalle traduzioni effettuate da Zecharia Sitchin;
• la Bibbia (la Storia degli Ebrei);
• Shujing (classico di Storia cinese);
• Matsya Purana e Shatapatha Brahmana (testi sacri indiani risalenti al primo millennio prima
di Cristo);
• il Timeo e il Crizia di Platone (Grecia) che ci parlano della famosa Atlantide;
• il Popul Vuh della civiltà Maya, per citarne solo alcune.
Il nostro problema principale è sempre stato quello che, troppo spesso, anche a causa delle pessime interpretazioni, durante la traduzione dei testi antichi, dovute:
– sia al fatto che molte parole del nostro vocabolario allora non esistevano;
– a un modo espositivo e a modi di dire dei quali si è perso il vero significato;
– alle “libertà poetiche” e interpretative degli scriba che copiavano centinaia di volte testi da testi che a loro volta erano stati copiati migliaia e migliaia di volte di volte lungo il corso dei secoli;
– ma anche, a volte, alla voluta sibillinità del testo che non doveva essere comprensibile se non agli
adepti di certe caste che ci fanno sembrare troppo assurde le cose ivi narrate che tendiamo quindi a relegare nel mito.
Il 4 agosto 1872 seguendo le indicazioni e le descrizioni dei testi omerici, che fino ad allora erano considerati solo un mito, Schliemann rinvenne vasellame, oggetti domestici, armi e anche le mura e le fondamenta non di una sola città, quella di Priamo, ma di ben altre otto città diverse, costruite l’una sulle rovine dell’altra.
Nel Famoso “Libro dei morti Egiziano” vi è poi una risposta ad uno dei più grandi interrogativi dell’Antropologia Moderna, che non è altro che la ricerca spasmodica dell’anello di congiunzione tra il Neanderthal e il Sapiens.
Le analisi sui rispettivi DNA hanno dimostrato una differenza di 38 elementi genetici tra le due tipologie umane. Quindi non è che possiamo parlare di evoluzione ma di due specie completamente differenti nella genetica seppur storicamente coesistenti.
Il “Libro dei Morti” Egiziano, rinvenuto in tantissimi esemplari, più o meno simili nel contenuto, perchè il papiro su cui era scritto veniva posto nelle tombe, o a volte direttamente nel sarcofago dei defunti (rappresentava una specie di Bibbia dell’epoca), esso fra le altre cose ci parla dell’Epoca d’Oro dello Zep Tepi (il “Primo Tempo” più o meno nel 36.420 a.C), e racconta, per chi sa interpretarlo nel giusto modo, come in quel tempo Sapiens abbiano completamente sopraffatto i Neanderthaliani.
Tracce della coesistenza e degli scontri fra queste due specie umane sono infatti ampiamente narrate in questo famoso Libro Egiziano. I seguaci di Seth sono i cosiddetti Sebau, a cui danno il soprannome di “Teste di Cane” (cinocefali) che non sono altro che i Neanderthaliali. Essi si scontrano con le popolazioni di Osiride (ucciso in precedenza da Seth) capeggiate da suo figlio Horus, che non sono altro che i Sapiens.
L’esito della battaglia è noto a tutti, essa si conclude con l’annientamento delle genti di Seth ovvero con l’olocausto dei cinocefali, cioè dei Neanderthaliani. (Seth stesso è rappresentato nell’iconografia egizia con una testa di cane, perché probabilmente, già da allora – quando è stato scritto il libro-, si era perso il senso del soprannome dispregiativo che i loro antenati avevano dato ai Neanderthaliani forse a causa del fatto che essi avevano la forma della parte anteriore del cranio leggermente più allungata della loro, un po’ “scimmiesca”). La datazione degli ultimi resti dei Neanderthaliani, risale appunto al periodo dello Zep Tepi.
Nel Cosiddetto Papiro di Torino, chiamato anche “Canone Reale” composto da più di 160 frammenti trovato da Bernardino Drovetti (1776-1852) nella città di Tebe è uno dei pochi elenchi superstiti dei Re Egizi.
Questo documento elenca tutte le Dinastie dei Re Egizi a partire da più di 40 mila anni fa!!!!????? Logicamente però i nostri esperti, ritenendo che ciò fosse impossibile, hanno preso i primi tre quarti dell’elenco e hanno detto “questo è mito” mentre l’ultima parte da Menes (3150-3125 a.C.) in poi hanno sancito, in maniera arbitraria, “questo è storia”.
Tenendo conto che poi di tale documento sono andate perdute sia l’inizio che la fine, a causa pare di tutte le vicissitudini che subì durante il trasporto, probabilmente l’elenco andava ancora più a ritroso nel tempo.
RINVENIMENTI DI VESTIGIA NEI MARI DEL MONDO
L’ipotesi di civiltà antidiluviane sono state supportate ultimamente anche da alcuni ritrovamenti eccezionali, tutti effettuati sotto il livello dei mari fino a ben 900 metri di profondità.
• La prima affascinante scoperta avvenne nel settembre del 1968 quando il Dott. Valentine, mentre stava nuotando al largo dell’isola di Bimini, nelle Bahamas, osservò una strada pavimentata con enormi blocchi di pietra rettangolari e poligonali.
Secondo alcuni, queste pietre ciclopiche, perfettamente squadrate e lunghe fino a cinque metri, ricordano molto i massi di Sacsayhuamán, l’imponente struttura situata a pochi chilometri dal Cusco, che si trova a ben 3.555 metri d’altitudine sul livello dei mari.
Tuttavia, alcuni scettici ritengono che la famosa strada di Bimini non sia altro che un fenomeno naturale chiamato “pavimento a tasselli”, che si origina quando la crosta terrestre viene soggetta a tensione e quindi si frattura in blocchi regolari.
Per altri invece, come lo stesso Valentine, ma anche il linguista e scrittore Charles Berlitz, e l’archeologo subacqueo Robert Marx, l’origine della strada di Bimini è artificiale e risale all’era glaciale.
• Il secondo interessante ritrovamento, ebbe luogo nel 1969. L’equipaggio del sottomarino statunitense Aluminaut, durante delle ricerche minerarie, scoprì per caso, nel fondale della Florida, a 900 metri di profondità, un’altra strada lunga più di 20 chilometri costituita di alluminio, silicio e ossido di magnesio. Ancora oggi non si sa se la misteriosa via sottomarina sia opera di una civiltà evoluta o semplicemente uno stranissimo scherzo della natura.
• Nel 1997 sono state individuate al largo dell’Isola di Yonaguni, la più a sud delle Isole Ryukyu, in Giappone, delle strane formazioni megalitiche, a partire dalla profondità di 25 metri.
Masaaki Kimura Geologo dell’Università di Ryukyu di Okinawa visitò le strutture subacquee e dopo attenti studi giunse alla conclusione che l’artefice di quell’opera ciclopica non può essere che l’uomo. Per Kimura queste strani monumenti, ormai meta di migliaia di visitatori, possono essere stati modellati dall’uomo, utilizzando le rocce “in situ” in un epoca pre-diluviana, quando i ghiacci coprivano gran parte dell’emisfero boreale e il livello dei mari era più basso dell’attuale.
Il cosiddetto monumento di Yonaguni, detto anche la “tartaruga” è una grande struttura di roccia rettangolare di 150 x 40 metri, alta 27 metri. La cima del monumento si trova a cinque metri sotto il livello dell’acqua.
Anche secondo l’archeologo subacqueo Sean Kingsley, queste mura, i cui lati sono perpendicolari tra loro, sono opera dell’uomo. Le caratteristiche architettoniche di quella che può essere considerata una colossale struttura, sono accostabili alle costruzioni mesopotamiche chiamate Ziggurat, piramidi a gradoni, tipiche dell’area medio-orientale. In precedenza nessuno aveva fatto caso alla presenza di queste costruzioni ed il professor Kimura è stato il primo ad aver capito che la struttura non era opera della natura, bensì dell’uomo.
• Nel 2000 l’Istituto nazionale di Tecnologia Marina dell’India annunciò di aver trovato, nel fondale prospiciente la costa dello stato del Gujarat, a 40 metri di profondità, delle strutture megalitiche simili ad una città. Alcuni archeologi indiani confutarono questa notizia, dicendo che era stata diffusa non seguendo stretti canoni archeologici, ma soprattutto per motivi politici, ovvero per dare all’India il primato di avere dato i natali alla prima civiltà del mondo.
Nel 2001 però. L’allora Ministro per la Scienza e la Tecnologia indiano Murli Manohar Joshi, annunciò ufficialmente la scoperta: le strutture sommerse trovate nel golfo di Khambat (Cambay) sono i resti di un’antica città che fu cancellata da inondazioni improvvise. Si affermò anche che le rovine dimostrano una notevole somiglianza con i resti delle civiltà della valle dell’Indo, che si svilupparono ad Harappa e a Mohenjo-Daro, intorno al 2700 A.C. .
Verso la fine del 2001 furono trovati dei pezzi di legno carbonizzato nelle vicinanze della città sommersa, che vennero datati, con il metodo del carbonio 14, a 9500 anni prima di Cristo. Nel 2003 e 2004 l’Instituto Nazionale di Tecnologia Marina dell’India fece altre esplorazioni subacquee, durante le quali furono recuperati dei pezzi di ceramica, indizi di attività artistica e artigianale di un popolo antico. I reperti furono inviati in alcuni laboratori indiani ed europei e, per mezzo del metodo della termoluminescenza, furono datati da 13 a 31 millenni fa. Il geologo indiano Batrinarayan confermò l’autenticità dei ritrovamenti, sostenendo che le reliquie sono state sottoposte ad analisi con la tecnica della diffrazione dei raggi X. In base a questi ritrovamenti la città sommersa di Khambhat sarebbe stata la più antica del mondo con un’età che potrebbe risalire ad un periodo compreso fra 9,5 e 7,5 millenni or sono.
• Nel maggio del 2001 la oceanografa canadese Paulina Zelitsky, responsabile della Advanced Digital Communications Company decsrisse i risultati di una esplorazione marina nel Mar dei Caraibi, detta Exploramar. Utilizzando un sofisticato robot, dotato di sonar, magnetometro e videocamera, che fu calato nelle profondità del mare e comandato a distanza con un cavo a fibra ottica, fu possibile mappare una zona di fondale immensa, e i risultati furono stupefacenti.
Delle enormi strutture megalitiche situate a ben 600 metri di profondità sono state trovate al largo del Cabo San Antonio, o Penisola Guanahacabibes, nell’estremo ovest dell’isola di Cuba. Le strane formazioni sommerse, cubi, parallelepipedi e piramidi, si estendono per ben venti chilometri quadrati. Per la loro grandezza e complessità, sono state battezzate Mega.
Per molti è semplicemente una città impossibile, che non si può spiegare con le tecniche scientifiche attuali. Per altri invece le enormi pietre squadrate sono i resti di antiche mura ciclopiche, in quanto dopo un’attenta analisi si giunge alla conclusione che un tempo dette pareti furono esposte agli agenti atmosferici, poiché vi si trovano i resti di un’antica ossidazione. Inoltre in base alle fotografie e ai video divulgati, si nota che esistono delle strutture ripetute come fossero muri utilizzati per abitazioni.
Il geologo Manuel Iturralde, che partecipò alle ricerche, sostiene che è possibile che le rovine sommerse siano attribuibili a una civiltà anti-diluviana, che risalirebbe al decimo millennio prima di Cristo.
Questi eventi, se confermati dalle ultime indagini, ora in corso, imporranno un arretramento dell’orologio della storia di minimo 4.000 anni. Fino ad oggi infatti, la palma della città sommersa più antica spettava a Uruk (Mesopotamia), fondata nel 3.500 avanti Cristo dal Re Gilgamesh.
In seguito a tutti questi ritrovamenti, ma anche a moltissimi altri, il cui elenco è troppo lungo da elencare in questa sede, si può giungere alla conclusione che le possibilità che siano esistite delle etnie antidiluviane sono numerose. In effetti lo studio del lunghissimo periodo di tempo durante il quale l’Homo Sapiens ha dominato il pianeta, è solo agli inizi: sembra abbastanza riduttivo pensare che solo a partire dal 8.000 A.c. sia nata la civiltà.
La nostra visione, che definisce la civiltà come una società di persone che praticano l’agricoltura e vivono in villaggi, dandosi delle regole comuni di comportamento, potrebbe essere limitata. Probabilmente alcuni gruppi di umani, pur non raggiungendo livelli tecnologici più avanzati, avevano sviluppato una rete di collegamenti marittimi e praticavano il commercio, basato sul baratto. Non avevano previsto però che la natura può essere a volte brutale, e molti di loro perirono durante gli sconvolgimenti climatici della fine della glaciazione. E’ verosimile pensare che i sopravvissuti si addentrarono all’interno dei continenti, dove poi si mischiarono con altri loro simili.
OOPART
Come Ulteriore prova a quanto appena detto, si potrebbero apportare quei misteriosi oggetti,
fin’ora rinvenuti in tutte le parti del mondo, che pongono grossi interrogativi, sia per la loro conformazione, sia per le loro caratteristiche tecnologiche che non avrebbero assolutamente dovuto avere, considerando le epoche alle quali vengono attribuiti, che in alcuni casi arrivano a milioni di anni prima che l’uomo apparisse sulla Terra (in base alle attuali conoscenze).
Certo frammisti a tali oggetti, che vengono definiti OOPart dall’acronimo inglese Out of Place Artifacts (reperti o manufatti fuori posto), coniato dal naturalista e criptozoologista americano Ivan Sanderson, ve ne sono tantissimi fasulli, a volte messi a posta per screditare la credibilità di quelli autentici, ma di molti altri ne è stata accertata l’originalità attraverso studi approfonditi.
Essi assieme a molti siti archeologici inspiegabili per le stesse motivazioni costituiscono uno dei misteri più grandi del mondo, in quanto ci portano a credere che i nostri lontani predecessori non siano stati tutti ad un livello culturale e tecnologico inferiore al nostro, come anche molti scritti a noi pervenuti, ma da noi sempre considerati mitologici, fanno supporre.
In questa sede ci limitiamo solo a dare qualche descrizione in più di soli due OOPart, uno che rappresenta un oggetto vero e proprio e l’altro che rappresenta un esempio di vestigia archeologica anomala:
1) Il Calcolatore di Antikythera;
2) Le Rovine di Baalbeck.
IL CALCOLATORE DI ANTIKYTHERA
Il Calcolatore di Antikythera non rappresenta certo uno dei reperti più antichi mai ritrovati, come ad esempio la Tazza in ferro di Wilburton rinvenuta nel 1912 in una miniera di Wilburton, nell’Oklahoma, da parte di Frank J.Kenwood in un blocco di carbone risalente a 312 milioni di anni fa (in pieno periodo Carbonifero) ma costituisce ormai un’ emblema di quanto, molto spesso, possano essere errate le nostre convinzioni in relazione alle tecnologie possedute dall’uomo nelle varie fasi della sua storia.
Il Meccanismo di Antikythera, infatti pur essendo relativamente recente, se paragonato alla Tazza di Wilburton, essendo stato datato all’incirca al 100-150 a.C. (con riferimento alle monete trovate nel relitto), rappresenta il più antico calcolatore meccanico finora conosciuto.
Il suo ritrovamento è avvenuto nel 1902, grazie alla segnalazione di un gruppo di pescatori di spugne, nelle acque in prossimità dell’omonima Isola di Antikythera, situata sotto la Grecia fra il Mar egeo e il mar Ionio, ad una profondità di 43 metri, assieme a molte statue di marmo e di bronzo nel relitto di una nave, forse partita da Pergamo e diretta a Roma, lì naufragata.
La macchina era delle dimensioni di circa 30 cm per 15 cm, dello spessore di un libro, costruita da una trentina di ruote dentate in bronzo era sicuramente originariamente montata in una scatola in legno. È ricoperta da oltre 2.000 caratteri di scrittura, che descrivono le funzioni relative al funzionamento del meccanismo, dei quali circa il 95% è stato decifrato (il testo completo dell’iscrizione però non è ancora stato pubblicato).
Il meccanismo è attualmente conservato nella collezione di bronzi del Museo Archeologico Nazionale di Atene, assieme alla sua ricostruzione donata da Price.
All’epoca gli archeologi ritennero che il meccanismo era troppo complesso per appartenere al relitto in cui era stato rinvenuto.
Alcuni esperti dissero già da allora che i resti del meccanismo potevano appartenere ad un planetario o a un astrolabio. Le polemiche si susseguirono per lungo tempo ma la questione rimase irrisolta.
Tutti quelli che avevano preso n esame le caratteristiche del Calcolatore di Antikythera erano concordi nell’affermare che si trattava di una macchina “fuori dal tempo”: gli archeologi concordavano che in quel tempo non era possibile produrre apparecchiature di tale complessità cinematica. Del resto si è dovuto aspettare oltre 19 secoli per realizzare un primo esempio di rotismo epicicloidale o differenziale, presente invece nel rotismo principale del Calcolatore di Antikythera.
L’ invenzione del rotismo differenziale è stata ufficialmente attribuita all’orologiaio francese Onésiphore Pécqueur (1792-1852), che lo brevettò nel 1828. Per il calcolo analitico, invece, ci si avvale della formula di Robert Willis, enunciata nel 1841 nel suo libro Principles of Mechanism.
Dopo ilCalcolatore di Antikythera, i rotismi epicicloidali o differenziali sono stati applicati in epoca moderna per la prima volta, circa un secolo fa, nel differenziale delle automobili. Il differenziale, ora quasi universalmente adottato su tutti gli autoveicoli, consente di variare la velocità angolare delle ruote motrici in curva, evitando che si verifichino strisciamenti tra le ruote stesse e il terreno.
I rotismi epicicloidali sono utilizzati attualmente anche nei cambi automatici automobilistici e ferroviari e nei riduttori delle eliche degli elicotteri.
Oltre quanto appena detto, per secoli non c’è stata traccia di meccanismi epicicloidali.
Fu solamente nel 1951 che i dubbi sul misterioso meccanismo cominciarono ad essere svelati. Quell’anno infatti il professor Derek de Solla Price (1922-1983) cominciò a studiare il congegno, esaminando minuziosamente ogni ruota ed ogni pezzo e riuscendo, dopo circa vent’anni di ricerca, a scoprirne il funzionamento originario.
Negli ultimi anni un gruppo multidisciplinare di ricercatori britannici, greci e statunitensi, l’Antikythera Mechanism Research Project, ha potuto approfondire ulteriormente l’analisi del meccanismo, grazie a nuovi frammenti ritrovati alcuni anni fa, usando tecnologie molto più moderne di quelle su cui poteva contare Price, dalla tomografia computerizzata alla rielaborazione digitale, ad alta risoluzione, della superficie.
Alla fine del 2008, è arrivata la notizia della ricostruzione completa dell’antico apparecchio, curata da Michael Wright, un ingegnere del Museo delle Scienze di Londra. È una copia esatta del’originale, con le stesse dimensioni e gli stessi materiali.
Il nuovo modello che è contenuto in un telaio ligneo poco più piccolo di una scatola da scarpe ha da un lato un singolo quadrante e sul lato opposto altri due quadranti sovrapposti che riportano lo zodiaco e i giorni dell’anno, punte di metallo indicano la posizione del Sole, della Luna e dei cinque pianeti principali: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno.
Il quadrante superiore, rappresenta il Ciclo Metonico, cioè il ciclo dei 19 anni. In questo modo è possibile mantenere un calendario sincronizzato sia al corso del sole, sia a quello della luna. Il quadrante inferiore è stato diviso invece in 223 parti con riferimento al cosiddetto Ciclo di Saros, (già conosciuto dai babilonesi) usato per prevedere le eclissi. Un probabile utilizzo del calcolatore era quello di rilevare la latitudine della nave per mezzo della posizione delle stelle come risulta da testimonianze di antichi navigatori mussulmani.
Le conoscenze scientifiche che si presuppone avessero i costruttori del calcolatore, ci danno la conferma che essi fossero perfettamente a conoscenza del sistema planetario eliocentrico, proposto in epoca moderna da Niccolò Copernico (1473-1543) nel 1543 (vedi De revolutionibus orbium coelestium), ma che era stato già anticipato nell’antichità da Aristarco di Samo (310 ca.-230 a.C.).
Gli studi di quest’ultimo furono però osteggiati per molti secoli successivi, consentendo l’affermazione della teoria geocentrica di Aristotele (384-322 a.C.) e di Claudio Tolomeo (100-170 d.C.ca.), che quest’ultimo riporta nel suo Almagesto. Aristarco fu sostenuto solo da pochi scienziati, alcuni suoi contemporanei, come Archimede di Siracusa (287-212 a.C.), che cita la teoria eliocentrica di Aristarco nel suo libro L’Arenario, e da Seleuco di Seleucia (II sec. a.C.). La maggior parte degli scritti di Aristarco però sono andati perduti, e non è possibile sapere quali sono gli elementi da lui addotti in favore della sua teoria.
Il Calcolatore di Antikythera è l’unico planetario giunto fino a noi, ma la letteratura latina cita un altro planetario ben più antico, costruito da Archimede nel III secolo a.C., anch’esso presumibilmente con meccanismi ad ingranaggi.
Cicerone (106-43 a.C., contemporaneo all’affondamento del Calcolatore di Antikythera) riferisce che, dopo la conquista di Siracusa nel 212 a.C., il Console Romano Marcello aveva portato a Roma un globo celeste e un planetario costruiti da Archimede (287-212 a.C.): De Re Publica, I, 14, ed inoltre anche 21 e 22; Tusculanae disputationes, I, 63.
Questo planetario è menzionato anche da Ovidio (I sec. a.C.) nei Fasti (VI, 263-283), da Lattanzio (IV sec. d.C.) nelle Divinae institutiones (II, 5, 18) e in un epigramma di Claudiano (IV sec. d.C.) intitolato In Sphaeram Archimedis. In particolare, Claudiano aggiunge che lo strumento era racchiuso in una sfera stellata di vetro. Purtroppo non è rimasta alcuna descrizione dettagliata dei meccanismi che animavano il planetario in quanto l’opera di Archimede “Sulla costruzione della Sfera“, in cui descriveva i principi seguiti nella costruzione, è andata perduta. Tali citazioni letterarie comunque provano che la costruzione di questi meccanismi è stata molto diffusa per alcuni secoli e quasi certamente derivavano da conoscenze e tecnologie di una civiltà antidiluviana che col tempo sono andate perdute.
Il modello matematico e lo sviluppo analitico per brevità qui non sono riportati ma, per i curiosi che volessero approfondire, sono ampiamente trattati nel libro di Giovanni Pastore (Ingegnere Meccanico nato nel1954 a Rotondella – MT – Italia), “Il Planetario di Archime de Ritrovato” dove si parla anche del frammento di una ruota dentata di 43 millimetri ritrovato nel luglio del 2006, durante uno scavo nella Piazza del Mercato Civico nell’abitato di Olbia, forse appartenuta al Planetario di Archimede.
Oggi vi è addirittura una marca di orologi, la Hublot di Ginevra, che ha riprodotto il meccanismo del calcolatore di Antikytera in un orologio da polso.
LE ROVINE DI BAALBEK
Passiamo adesso a descrivere uno dei siti che rappresenta uno dei misteri della storia dell’architettura: Baalbek.
Baalbek (in arabo Baʿlabakk) si trova in Libano ed è uno dei siti archeologici più importanti del Vicino Oriente, dichiarato nel 1984 Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO per gli strabilianti templi, che vi si trovano, tanto da essere considerata già nell’antichità, una delle Meraviglie del mondo.
Essa è situata ad un altezza di 1.170 metri sul livello del mare e , in linea d’aria, dista circa 65 km ad est di Beirut.
I templi di costruzione Romana vengono datati al II , III secolo quando la città si chiamava Heliopolis e cioè Città del Sole. Il primo dio del quale sono state trovate tracce di culto è infatti il dio Siriano Baal-Hadad (Signore Hadad) dal quale deriva lo stesso nome originario della città; Baal-Hadad fu in seguito identificato dai Greci (la città fu conquistata da Alessandro Magno nella sua marcia verso Damasco nel 198 a.C.) con il dio del Sole Helios.
Uno dei templi più famosi di Baalbek è quello di Giove che misura 88×48 metri è composto da 54 colonne delle quali però oggi ne rimangono in piedi solo 6.
Molti interrogativi e misteri sono associati soprattutto al basamento di questo tempio, esso è costituito da massi troppo giganteschi, che notoriamente i Romani non riuscivano a spostare con le loro pur avanzate tecnologie.
Questo potrebbe far pensare che i Romani abbiano riutilizzato e riadattato templi realizzati, in ecedenza, dalla misteriosa civiltà megalitica di cui si ritrovano le tracce sparse in tutto il mondo, dall’Egitto al Mesoamerica, che erano già in rovina quando la città fu conquistata da Pompeo nel 64 a.C. .
Come fu possibile trasportate i megaliti dalla cava fino all’acropoli, sebbene il tragitto non sia molto lungo (600 metri) è pieno di asperità e quindi metterli in sede con tanta precisione che fra di essi non ci si può infilare nemmeno una lama di coltello?
Ad esempio i tre megaliti che compongono il cosiddetto Trilithon ovvero le “tre pietre” che costituiscono una parte dello zoccolo (stilobate) del tempio di Giove, sono lunghi circa 19 metri, alti circa 4,5 metri e spessi circa 3,4 metri ciascuno, un quarto monolite, la cosiddetta Hajar el Gouble, Pietra del Sud, oppure Hajar el Hibla, o pietra della partoriente fu ritrovato nella vicinacava, pronto per essere utilizzato nella costruzione di qualche altro tempio che poi venne interrotta a causa di motivi a noi ignoti.
Il nome Pietra della Partoriente pare sia dovuto ad un’incomprensione del nome dato da un archeologo francese alla pietra : “Pierre d’Enceinte” che nel senso originario francese era inteso come “Pitra della Cinta Muraria” perché avevano ipotizzato che il monolito era stato fatto per un qualche muro di cinta.
Le dimensioni di questo monolite sono enormi: 21,36 metri di lunghezza, 4,33 metri di altezza e uno spessore di 4,60 metri, il peso stimato è di circa 1.200 tonnellate, per fare un paragone con i sistemi di sollevamento attuali si pensi che le più grosse gru che hanno effettuato la costruzione della Centrale di Fiume Santo avevano una portata massima di 400 tonnellate, che rappresentano già un’enormità. Solo recentemente la Liebherr ha messo in commercio una gru da 1200 tonnellate.
A chi pensa che sia stato possibile spostare un tale mostro con la sola forza umana o animale facciamo notare che solo per trascinare il monolito per metterlo su dei rulli di legno (ammesso che i rulli non vengano schiacciati poi dall’enorme peso e che si sia predisposta una pista perfettamente liscia sulla quale i rulli possano rotolare), per poi trasportarlo più agevolmente sarebbero necessarie almeno 40.000 persone o 6000 buoi con le relative funi adeguate al tiro, il chè sicuramente non fu la soluzione adottata dai misteriosi costruttori, anche tenendo conto che ciascuno dei tre monoliti che costituiscono il Trilithon, pur essendo più piccolo del mostruoso Hajar el Gouble pesa comunque, in media 800 tonnellate.
Certamente i Romani furono maestri nel trasportare grossi massi, essi ad esempio riuscirono a trasportare a Roma gli obelischi come quello proveniente dal Tempio del Sole a Heliopoli in Egitto, ora posto in Piazza del Popolo, del peso di 235 tonnellate, oppure quello di Piazza di Montecitorio, 230 tonnellate, le loro dimensioni comunque, sono assolutamente minori rispetto a quelle di Baalbek, e non sembrano determinanti per spiegare in che modo il Trilithion fu messo in opera.
Leggende locali, tramandatesi fino ad oggi, narrano che Baalbek sia stata fondata, prima del Diluvio Universale, nel 133° anno della creazione da Caino figlio di Adamo che Dio aveva bandito dalle terre del Nord a oriente dell’Eden dopo l’omicidio del suo buon fratello Abele. La città poi distrutta dal Diluvio fu molto più tardi ricostruita da una razza di giganti sotto il comando di Nimrod, il “Potente Cacciatore” il “Re di Sennaar” del Libro della Genesi.
Altre fonti fonti arabe, però, come quella di Al Idrisi, viaggiatore e geografo arabo vissuto tra il 1099 e il 1166, affermano invece che “il Grande, (tempio) dalla strabiliante apparenza fu costruito al tempo di Re Salomone”. Della stessa convinzione era anche Beniamino di Tudela, (ca. 1160) viaggiatore ebreo, che nel suo Sefer massa’ot, visitando Baalbek scrisse: “Questa è la città che è menzionata nelle scritture come Baalath, nei pressi del Libano, che Salomone costruì per la figlia del Faraone.”
Ogni anno qualcuno fa nuove ipotesi sulle origini di questa misteriosa Città, chissà che un giorno non si riesca finalmente a dare la risposta definitiva a tutte le domande.
INDIZI E TRACCE NEI DINTORNI DI PORTO TORRES
La domanda più frequente che tutti ci rivolgono, quando parliamo di questi argomenti, è: “Come mai di questa antica civiltà non esistono tracce sulla terraferma dei dintorni di Porto Torres?” La risposta anche se può sembrare una contraddizione è abbastanza ovvia.
L’uomo ha sempre avuto la tendenza irrefrenabile a distruggere tutto quanto fatto dai suoi predecessori.
Per fare solo alcuni esempi attinenti alla nostra zona diciamo che ad es. nella “Carta Archeologica della Nurra” pubblicata nel 1901, Giovanni Pinza aveva inserito 276 Nuraghi, dei quali ben 36 risultavano nei dintorni di Porto Torres che di conseguenza risultava essere una delle zone della Sardegna a più alta densità Nuragica.
Che fine hanno fatto tutti quei Nuraghi?
Avete mai provato a dare un’occhiata ai grossi massi che formano le scogliere frangiflutti dei vecchi moli del porto? (soprattutto il vecchio “Molo di Cattani” o Scogliera di Ponente ora rifatto quasi completamente).
Il Nuraghe Minciaredda, che si trovava all’interno degli attuali stabilimenti dell’ENI, è stato demolito negli anni ’60 dalla SIR per far posto ad una delle discariche più inquinanti e micidiali d’Europa.
La stessa Basilica di San Gavino è stata quasi interamente edificata utilizzando elementi di spoglio degli antichi monumenti di Turris Libisonis.
Che dire Poi della Vecchia Capitaneria addossata alla Torre Aragonese della quale sono state recentemente rinvenute le fondamenta durante i lavori di ristrutturazione del porto.
Il Vecchio Municipio poi doveva essere per forza abbattuto per costruire una banca, che sicuramente avrebbe potuto avere un’altra buona collocazione altrove?
E la Bellissima “Villa Sorcinelli” in Stile Liberty ed ancora più recentemente la Vecchia Dogana la cui costruzione risaliva alla seconda metà dell’800 anche se in seguito fu diverse volte restaurata in maniera molto impropria a partire dal 1946, in seguito ai gravi danneggiamenti dei bombardamenti della II guerra Mondiale e la cui originaria bellezza possiamo ancora ammirale attraverso il disegno di Simone Manca.
Durante le fasi di restauro dei rispettivi edifici abbiamo visto i grossi conci che formavano le antiche mura romane di Turris Lybissonis inglobati non solo nel “Palazzo del Marchese di San Saturnino” ma perfino nel Palazzo Ducale costruito alla fine del ‘700 da Don Antonio Manca Marchese di Mores, Signore di Usini e Duca dell’Asinara ora sede del Municipio di Sassari. Etc. etc..
Si preferiva smontarli semplicemente dalle antiche rovine e trasportarli ove occorrevano (in questo modo sudavano solo i buoi che tiravano i carri) piuttosto che cavarne dei nuovi.
A proposito di cave, è stato individuato in località “Ferrainaggiu” un grande Masso di circa 6X6X1,5 metri di lato, molto consunto dal tempo, che in origine quando fu estratto era sicuramente perfettamente squadrato e con le superfici piane e regolari, che si è salvato dall’essere ridotto a dimensioni minori, per rimanere uno degli indizi, ancora esistenti sulla terraferma, a favore dell’esistenza di questa antica civiltà, che era capace di spostare, con tecnologie a noi ignote, pesi molto significativi .
Nonostante tutte le norme di salvaguardia in materia del patrimonio storico e archeologico tutto ciò continua fino ad ai giorni nostri.
È sempre stato più facile ed economicamente conveniente demolire piuttosto che ristrutturare.
Qualcos’altro di simile potrebbero essere i grossi conci trovati durante lo scavo delle fondazioni dei palazzi costruiti nell’area dell’ex “Stabilimento Fara” troppo grossi per essere considerati di epoca romana.
In questo caso possiamo senz’altro dire, senza tema di smentita, che il mare, ha permesso di conservare delle vestigia che se fossero state nella terraferma sarebbero già state distrutte dalle mani dell’uomo.
RITROVAMENTI NELLE ACQUE DEL GOLFO DELL’ASINARA
Nonostante in tutto il Mondo vi siano stati questi ritrovamenti, l’Archeologia ufficiale è ancora scettica riguardo all’esistenza di civiltà antidiluviane.
Probabilmente toccherà al Golfo dell’Asinara, con le sue vestigia sommerse, squarciare definitivamente ogni dubbio sul mistero di queste genti che prosperarono durante una lunghissima era glaciale.
Il tutto è nato sia da nostre esperienze dirette risalenti a molti anni fa, sia da testimonianze di diverse persone fra le quali spiccano quelle di vecchi pescatori che in diverse occasioni ci hanno riferito di costruzioni regolari che si notano sul fondo del mare, chiaramente, solo quando le condizioni di visibilità sono ottimali.
Proprio questo è stato fin’ora il problema principale che fino ad oggi ha fatto arenare le ricerche, oltre che chiaramente alla cronica mancanza di fondi.
Quando si riesce a mettere insieme il volontario che ha una barca con un’adeguata strumentazione e gli esperti in immersioni, nel 99% dei casi ci si immerge nei punti segnalati ma non si riesce a vedere niente a causa della torbidità dei fondali.
Le rocce calcaree di questa zona, infatti, sia dei fondali stessi che delle parti costiere, con gli apporti fluviali e torrentizi, fanno depositare sul fondale delle microparticelle che con correnti marine anche minime vanno in sospensione, diminuendo drasticamente la visibilità.
Ciò non avviene, ad esempio, nella zona di Stintino dove vi è una diversa conformazione geologica delle rocce, meno solubili in acqua, ed è quindi più alta la percentuale di giornate con fondali perfettamente limpidi, anche con correnti sottomarine forti.
Al momento attuale tuttavia non ci sono ancora pervenute segnalazioni riguardo a strutture megalitiche sommerse in quella zona.
Questo non significa che nel mare prospiciente la Nostra Città non vi siano giornate in cui i fondali sono perfettamente limpidi, ma solo che disponendo solo di volontari è molto difficile far coincidere la disponibilità delle quattro cose necessarie:
1) i Mezzi Adeguati;
2) il Personale Competente:
3) le Condizioni Meteorologiche Buone;
4) la Visibilità dei Fondali Buona.
Si è deciso quindi di trovare dei finanziamenti e delle sponsorizzazioni pubbliche e private, in modo da poter acquistare e/o noleggiare mezzi e attrezzature più sofisticate, come ad esempio un sonar di ultima generazione, che da un’immagine tridimensionale dei fondali anche con visibilità zero, e che quindi, in collegamento ad un GPS permette di localizzare punti interessanti che potranno essere controllati meglio quando le condizioni meteomarine e di visibilità lo permetteranno.
Sarà inoltre necessario avere a disposizione un mezzo che consenta di fare agevolmente immersioni anche in periodo invernale, quando le temperature non sono delle più gradevoli ma le condizioni di visibilità sono eccellenti.
A tal proposito è stato individuato un mini-sommergibile, che può trasportare massimo tre persone. Questo mezzo che è utilizzato ormai correntemente per escursioni da molti operatori del settore, ma anche per prospezioni e ricerche, perfettamente si adatta al nostro scopo.
Verrà chiaramente assunto anche del personale in modo da permettere il raggiungimento di un risultato apprezzabile in tempi relativamente brevi; pensiamo massimo due anni dall’acquisizione della somma prefissata necessaria al raggiungimento dello scopo.
I ritrovamenti dei quali abbiamo attualmente le coordinate sono finora situati a profondità variabili, fra i 5 e i 30 metri, che sono poi le profondità più sfruttabili economicamente per visite guidate.
Tuttavia siamo sicuri che vi sono vestigia molto interessanti, da un punto di vista storico, anche a profondità maggiori.
Le vestigia sono costituite da mura formate da blocchi megalitici di dimensioni variabili dai 2 ai 3 metri ma anche oltre posati ad OPUS QUADRATUM che spesso risultano spostati dalle loro posizioni originarie da una forza terrificante. Cosa è successo?
I tempi sono ormai maturi, soprattutto perché, dopo i rinvenimenti similari, alcuni dei quali abbiamo precedentemente riportato, avvenuti in diverse parti del Mondo, anche il nostro Golfo possa far sentire la sua voce. Quando parliamo di questi ritrovamenti, la gente ci ascolta con attenzione ed interesse senza farci passare per visionari, specie nelle famiglie dei pescatori, dove molte sono le testimonianze che hanno sentito dai loro congiunti.
Recentemente ad esempio siamo stati convocati dalla Facoltà di Geologia dell’Università di Sassari (Prof. Ginesu) che ha chiesto precisazioni sull’avanzamento delle ricerche.
Sempre più gente in tutto il mondo è affascinata da questi aspetti della nostra affascinante storia ancora poco chiara e quindi avvolti dal mistero.
Albert Eintein disse: “Il più bel sentimento che si può provare è il senso del mistero. È questa la fonte di ogni arte genuina, di ogni vera scienza. Colui che non ha mai conosciuto questa emozione, che non possiede il dono di meravigliarsi e di estasiarsi, tanto vorrebbe che fosse morto: i suoi ochhi sono già chiusi”.
BUDGET PREVISTO
La somma necessaria per portare avanti il progetto non è bassa (vedi Piano Economico Finanziario), ma è quasi irrisoria paragonata ai risultati che si otterranno.
Quando la ricerca sarà terminata si avrà a disposizione una mappatura del golfo con le coordinate precise di molte rovine sommerse che potranno essere meta di un interessante percorso di visite guidate diving. Mentre per i siti meno profondi potranno essere utilizzati i mezzi tipo SEA DISCOVERY costruiti a Porto Torres dal Cantiere Navale “Orsa Maggiore” che ha già evaso commesse, per questo tipo di mezzi semisommergibili, provenienti da tutto il Mondo.
Quindi sarà possibile chiaramente effettuare ulteriori studi approfonditi da parte degli Enti e delle Autorità Preposte.
Ciò non attirerà solo migliaia di appassionati ma darà una Caratterizzazione Precisa al turismo della Città, oltre all’Isola dell’Asinara, dandole visibilità in tutto il mondo in seguito alle conferenze e ai servizi televisivi che verranno organizzati appositamente per divulgare i dati della ricerca.
La Città con questo forse non risolverà tutti i problemi economici e occupazionali, ma sicuramente aggiungerà, contestualmente all’Isola dell’ Asinara, un tassello importante verso una crescita e uno sviluppo , secondo solo a quello del periodo dell’insediamento industriale, che tanta ricchezza ha portato in Città, a discapito però, di un’ immane inquinamento che molto è costato e costerà in termini di salute pubblica e vite umane.
Si inizierà così finalmente ad uscire dalla crisi che ha portato la nostra città ad essere soprannominata dai suoi stessi abitanti “MORTO TORRES”.
Siamo solo agli inizi di questa avvincente sfida.
Il nostro lontano passato, ci fornirà preziose informazioni non solo sulle nostre origini, ma anche su come affrontare il nostro futuro, migliorando così le nostre condizioni di vita per mezzo di un
TURISMO ECOCOMPATIBILE
ALTAMENTE CARATTERIZZATO
IL GOLFO DELL’ASINARA POTREBBE ESSERE STATO FORMATO DALL’IMPATTO DI UN METEORITE?
Da poco stiamo portando avanti studi atti a verificare la possibilità che in un lontanissimo passato il Golfo dell’Asinara sia stato oggetto di un impatto meteoritico che ne ha plasmato la sua caratteristica morfologia semicircolare.
Il fatto che non si noti un cratere completo, così come siamo abituati a vedere, in questi tipi di conformazioni geologiche, potrebbe essere dovuto al fatto che, con i milioni di anni trascorsi, il mare sia riuscito a cancellarne una parte, che già magari all’origine era più bassa, (probabilmente a causa della traiettoria inclinata con la quale il meteorite ha impattato la Terra). Sempre il mare ne ha poi livellato il fondo del cratere con la sabbia, occultando alla vista anche il punto centrale di impatto.
Queste potrebbero essere le motivazioni che oggi non ci consentono di ividuare facilmente il Golfo dell’Asinara come un Cratere Meteoritico.
Il nostro pianeta è continuamente sottoposto ad un bombardamento cosmico. In gran parte si tratta di polvere interplanetaria, ma alcuni di questi proiettili cosmici possono superare i 5 km di diametro.
Gli astronomi stimano che negli ultimi 600 milioni di anni almeno una sessantina di simili meteoriti giganti siano caduti sulla Terra. Si tratta di impatti così catastrofici che hanno senza dubbio modificato la biosfera terrestre.
In effetti la documentazione fossile di questo periodo rivela cinque grandi estinzioni di massa, alcune delle quali, dovute probabilmente anche ad impatti di grossi meteoriti molto più grandi di quello che sembra aver impattato nel nostro golfo.
Negli ultimi tempi sono stati scoperti nuovi metodi per valutare quando e dove siano avvenuti gli impatti, anche se nella maggior parte dei casi i crateri di impatto sono stati sepolti o comunque mascherati dall’erosione. Marcatori indiretti sono:
• Presenza di minuscoli cristalli di minerali frantumati o fusi nella collisione;
• Presenza di elementi e gas di indubbia origine extraterrestre;
• Presenza di quarzo alterato da shock;
• Presenza di microsferule fuse (prodotte da rapido raffreddamento di roccia fusa scagliata nell’atmosfera durante l’impatto);
• Elevate concentrazioni di depositi carboniosi (carboni e ceneri prodotti dai grandi incendi successivi all’impatto in concentrazioni migliaia di volte superiori al normale).
Noi stiamo ora cercando tutti questi indizi che potrebbero avvalorare la nostra tesi. Con questa ipotesi si potrebbe avere una spiegazione logica del perché tutte le rocce prospicienti il Golfo, ma in special modo, quelle dell’ Asinara (pare che il meteorite abbia impattato proprio inclinato verso la sua direzione) abbiano subito uno sconvolgimento tale da inclinarne, in alcune zone, anche di quasi 90° le linee di stratificazione delle rocce, che all’origine della loro formazione erano certamente orizzontali (vedi foto).
A questa sorte pare non siano stati invece assoggettati i substrati sedimentari carbonatici e/o arenacei perché forse probabilmente di origine successiva all’impatto.
Altra cosa, per noi, alquanto strana è la presenza di granito all’Asinara (monzogranito e leucogranito) che nella parte Occidentale della Sardegna rappresenta un episodio quasi unico; i particolari del processo di formazione del granito sono ancora allo studio ed in fase di dibattito fra i vari geologi, ma comunque è cosa accertata che sia una roccia ignea intrusiva che si forma dal lento raffreddamento di un magma che si è intruso a profondità comprese fra 1,5 e 50 Km, esso assieme alle rocce metamorfiche (gneiss, micascisti, filladi) costituisce la parte profonda della crosta continentale su cui si appoggiano gli strati delle rocce sedimentarie.
La domanda che ora ci poniamo è: “Qual’è la possente e terribile forza che ha fatto non solo venire in superficie il granito inclinandone paurosamente le linee stratigrafiche, ma lo ha fatto anche elevare così tanto che i Doria (o forse i Malaspina ?) in epoca medievale vi edificarono sopra un castellaccio che situato poco al di sotto Della Punta Maestra di Fornelli (265m) domina tutto il Golfo dell’Asinara?”
Lo stesso interrogativo vale anche per i micascisti, anch’esse rocce formatesi in strati profondi ed invece presenti superficialmente in tutta la zona di Stintino (tanto da essere volgarmente chiamata in zona “Pietra di Stintino”, ma anche sempre all’Asinara, dove a Punta della Scomunica raggiungono i 408 metri di altezza, con stratigrafie, anche in questo caso, fortemente inclinate.
Parrebbe infatti alquanto strano che questi sollevamenti e queste inclinazioni delle rocce siano avvenuti durante la loro migrazione, che seguendo una rotazione in senso antiorario, dalla zona fra le Alpi e la Sierra Nevada Spagnola, avvenuta a partire dal Miocene, ha portato alla formazione della Sardegna, della Corsica e della Penisola Italiana.
Tutte le conformazioni rocciose, presenti in questa zona, a cui si sta facendo riferimento hanno subito un’inclinazione che ha sempre come riferimento il centro del golfo dell’Asinara.
Emblematiche a tal riguardo potrebbero essere , ad esempio, le strane conformazioni rinvenute nel 1995, a Fiume Santo, dal Prof. Sergio Ginesu, della Facoltà di Geologia dell’Università di Sassari, durante le prospezioni del giacimento fossilifero, fortuitamente venuto alla luce, durante i lavori di costruzione della centrale elettrica dell’ENEL, dove sono stati ritrovati gli ormai famosi resti dell’ oreopitheco, risalenti a 8 milioni di anni fa.
Tali numerosissime conformazioni, sono presenti in uno strato argilloso ed il Professore le definisce “enigmatiche forme ad imbuto” non riuscendo però a darne una spiegazione logica definitiva, ipotizzando solamente che potrebbero essere dovute “Alla dissoluzione di antichi apparati radicali sostituiti dal riempimento delle sabbie” oppure “un’altra ipotesi di possibile formulazione di origine sedimentologica sulla base del risucchio che l’attività carsica del sottostante travertino produceva nei livelli superiori.
La presenza di Conformazioni Geologiche ad Imbuto nell’argilla di origine carsica favorisce quest’ultima ipotesi; permane comunque il dubbio che rappresenta uno degli enigmi ancora aperti del Giacimento Fossilifero di Fiumr Santo” (estratto da “Sulle Orme dell’Oreopitheco” – 1995).
Se invece, queste conformazioni, molto più semplicemente, fossero le tracce lasciate sulla morbida argilla, dalla ricaduta dei frammenti sollevati dall’impatto del meteorite (basterebbe solamente verificare se in fondo ai coni degli “imbuti” vi sia un qualche corpo sferoidale che li ha creati con l’impatto), esse rappresenterebbero un ulteriore indizio per avvalorare la nostra tesi. Inoltre, di conseguenza, la datazione dello strato fossilifero dove sono presenti detti “coni” porterebbe a dare un’indicazione sull’epoca nella quale sarebbe avvenuto il nefasto evento che ha portato alla creazione del golfo dell’Asinara con la sua meravigliosa e stupenda omonima Isola Parco.
Nella Provincia Dell’Aquila, nel parco del Sirente-Velino, è stato scoperto il primo cratere da impatto italiano che, nel maggio 2003, è stato definitivamente catalogato (anche se qualcuno si ostina ancora a cercare di dimostrare che il cratere sia stato scavato dai pastori per creare un abbeveratoio per le pecore): si tratta di un meteorite caduto, in termini astronomici, molto recentemente, tra il IV-V sec. d.C.
Il cratere che si è formato sui Prati del Sirente, nel comune di Secinaro, ha struttura ellittica con un’asse maggiore di metri 140, uno minore di metri 115 ed una profondità massima di 10 metri.
Come si può constatare, il cratere del Sirente è tra i più piccoli al mondo, ciò nonostante ha delle interessanti peculiarità: innanzitutto è il primo cratere da impatto scoperto in Italia; in secondo luogo esso è recentissimo (sempre in termini astronomici) rispetto a tutti gli altri, appena 1600 anni, ed è uno dei meglio conservati al mondo.
È da precisare che intorno al cratere principale sono stati rinvenuti, per un raggio di 1 Km., altre depressioni che, in alcuni casi, raggiungono un diametro di 15 meri. ed una profondità di 1-2 metri. Anche su queste formazioni è stata fatta l’analisi al carbonio 14 e la datazione risultante è in linea con quella del cratere principale. Ubicato all’interno del Parco Regionale del Sirente-Velino, noto per i suoi splendidi paesaggi, il cratere di Secinaro è oggetto di studio non solo da parte di scienziati, ma anche di storici e religiosi.
Se dovesse essere confermato l’impatto del meteorite nel Golfo dell’Asinara si tratterebbe dunque del secondo, ma non per importanza, scoperto in Italia.
Cosa ne pensate? Per Critiche o Suggerimenti scriveteci all’indirizzo email
info@porto-torres.info
Autore Luigi Ruda